martedì 16 gennaio 2018

LANZAROTE, ARIDA MA FERTILE GRAZIE ALLE CENERI VULCANICHE


Recentemente, alcuni scienziati del Dipartimento di Scienze della Terra del'Università di Upsala, in Svezia, e dell'Instituto de Estudios Ambientales y Recursos Naturales de la Universidad de Las Palmas de Gran Canaria, hanno pubblicato sulla rivista Geology Today una ricostruzione di come cambiò (in meglio) il destino di Lanzarote l'eruzione più lunga avvenuta in Europa in tempi storici, della durata di 2056 giorni. I vulcani multipli che si aprirono in quei sei, terribili anni per gli isolani, vomitarono fino a 5 km cubici di materiale incandescente che seppellirono 26 villaggi e molti dei suoi migliori campi da coltivazione. E nel 173,  centinaia di abitanti dell'isola furono costretti a emigrare, non intravvedendo un futuro per sé nella propria terra natale.
Tuttavia, appena quattro decadi sopo, Lanzarote aveva il doppio della popolazione (passò infatti dai 5 mila abitanti del 1730 ai 10 mila del 1768), e si piantarono per la prima volta vigneti di un'uva proveniente dalla Grecia che le avrebbe procurato un prodotto di fama mondiale: la Malvasia.
Gli scienziati autori dell'articolo, tra i quali Juan Carlos Carracedo, da quarant'anni uno dei vulcanologi di riferimento nelle Canarie, ricordano che Lanzarote deve molto all'eruzione di Timanfaya (una località di Lanzarote particolarmente colpita) ai fini di questa importante rivoluzione in campo agricolo che finì col sostitire l'economia dell'isola fino al secolo XX.
La storia di quel che accadde ha quasi del miracoloso. Una delle versioni più diffuse, la stessa che riporta l'articolo di Geology Today, riferisce che il vescovo inviato dalla Corona a Lanzarote per valutare i danni provocati dall'eruzione, Manuel Dávila y Cárdenas, si accorse che, nei campi in cui lo strato di scorie che ricopriva la terra era sottile, le piante non solo non erano morte, ma anzi crescevano con maggior vigore e si riproducevano più facilmente.
Altri storici, pur non negando la perspicacia del vescovo, sostengono però che ci sono testimonianze circa l'uso anteriore all'eruzione, da parte degli agricoltori dell'isola, di una tecnica che poi si estese alle altre Isole Canarie e alle zone della conquista Hispanoamericana, detta enarenado. Consisteva nel coprire il terreno da coltivazione di un sottile strato di lapilli e cenere (el picón).
Gli autori dell'articolo citato sottolineano come, senza alcun rischio, los enarenadores moltiplicarono le vendemmie in un'isola dalla quantità di pioggia simile a quella del deserto del Sahara (i suoi campi ne ricevono una media di 150 l/m2 all'anno) proprio grazie alle particolari proprietà dei materiali vulcanici, che assorbono l'umidità dall'aria e la cedono lentamente, a poco a poco, alla terra coltivata. Inoltre proteggono il terreno dai raggi del sole e dall'evaporazione e, grazie alle colonie di microrganismi che proliferano nel picón, le conferiscono in modo appropriato nutrienti senza dover utilizzare fertilizzanti chimici.
Gli scienziati svedesi e grancanari auspicano che si possa esportare su vasta scala questa tecnica, utile per incentivare alcune coltivazioni in altri luoghi del mondo aridi come Lanzarote, che grazie alle scorie vulcaniche  (del resto già imitate da vari prodotti da giardinaggio), potrebbero diventare fertili per migliaia di anni.
«In un pianeta sul quale la temperatura si eleva lentamente ma progressivamente, e si notano cambi importanti nei regimi di pioggia e l'esaurimento di molte riserve d'acqua sotterranea in zone già aride del pianeta, sarà una sfida sempre più importate coltivare sufficiente cibo per alimentare la popolazione» fanno osservare. «Perciò potrebbe rappresentare un grande aiuto applicare tecniche in grado di ridurre la necessità di irrigare come l'enarenado con materiali simili al picón».

Nessun commento:

Posta un commento